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©Roberto Bonfigli

La città degli altri

Il manicomio provinciale di Ancona e la rivolta del ’68

1968. I movimenti contestano la ragione borghese e si domandano quale saggezza si nasconda dietro la follia. Nasce un vivace dibattito sulla follia stessa, una nuova concezione della malattia mentale e una lotta per il riconoscimento dei diritti dei malati di mente. In una società monodimensionale che opprime l’individuo, il folle diventa simbolo di libertà e al tempo stesso l’espressione più dolorosa dell’esclusione dalla società. Il manicomio di Ancona, che aveva avuto varie esperienze di avanguardia – la fondazione della colonia agricola cui destinare i malati tranquilli nel 1888, l’introduzione della psicanalisi da parte del dott. Modena nel 1908, l’autorizzazione fin dal 1929 a svolgere attività lavorativa fuori dai reparti di degenza, l’esperienza quasi quinquennale di “manicomio aperto” a Sassoferrato a seguito della seconda guerra mondiale, e negli anni ’60 la collaborazione con il Centro d’igiene mentale – vive nel ’68 e negli anni successivi una stagione di contrasti, dibattiti, trasformazioni in collaborazione con le comunità psichiatriche di Gorizia e di Perugia.

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” La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria , di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere”.

Franco Basaglia

©Roberto Bonfigli

Alla fine dell’Ottocento, ad Ancona, come in molte altre province del centro-nord interessate da profonde trasformazioni economiche e sociali, il numero dei ricoverati in manicomio cresce di anno in anno. L’Amministrazione Provinciale, responsabile dell’assistenza “ai mentecatti poveri” deve sostenere un’ingente spesa per le rette alla Casa dei pazzi, fatiscente e inadeguata. Decide allora di costruire un Manicomio provinciale che verrà aperto nel maggio 1901. Vi sono trasferiti, dalla Casa dei pazzi di via Fanti, quattrocento “mentecatti pericolosi a sé ed agli altri, o disturbatori dell’ordine pubblico, od offendenti con iscandalo il buon costume”.

 

Il manicomio era un villaggio con varie centinaia di abitanti. Alcuni vi abitavano stabilmente: il direttore e la sua famiglia, il vicedirettore, alcuni medici, il segretario amministrativo e la sua famiglia, l’ispettore degli infermieri e la sua famiglia, le suore e i ricoverati. Altri – gli infermieri e qualche medico – dormivano a casa loro ma passavano in manicomio gran parte del loro tempo. Il direttore non era solo un medico, bensì il capo di questo grande villaggio, modellato sulla società esterna, su cui aveva l’autorità di un monarca assoluto.

Nel 1913 il vecchio direttore Riva si ritira lasciando la gestione del Manicomio a Gustavo Modena, che già dal 1909 era vicedirettore. Allievo di Augusto Tamburini, si specializza a Vienna negli anni in cui nasce la psicanalisi e ferve il dibattito sulla cura delle malattie mentali. Dirigerà l’Ospedale Psichiatrico di Ancona fino al ’39, quando le leggi razziali lo costringono a ritirarsi. La direzione di Modena è caratterizzata da una grande attività di ricerca scientifica e da un impegno etico che pone al centro della sua vita la lotta contro l’alienazione mentale. Egli vuole trasformare il manicomio, da ricovero per dementi, in ospedale psichiatrico per la cura delle malattie mentali. Nel saggio del 1915 Cenni storici, appunti statistici, progetti per l’avvenire prefigura un tempo in cui i manicomi  potranno essere eliminati:

“Verrà un giorno in cui i nostri infermi acuti saranno curati in reparti di Ospedale e soltanto i cronici inguaribili e antisociali troveranno assistenza in case di lavoro e in colonie agricole autonome”

I ricoverati erano divisi in reparti secondo il sesso e la diagnosi di pericolosità. Il manicomio costituiva un mondo a sé e coloro considerati tranquilli svolgevano attività agricole e artigianali. Riguardo a ciò, i benevoli parlavano di ergoterapia; i critici definivano tale situazione sfruttamento, dato che i ricoverati non percepivano alcun compenso.

Le seguenti foto risalgono alla direzione di Modena.

 

Negli anni fra le due guerre sotto la guida di Modena, con la costante collaborazione del vicedirettore Nino De Paoli, l’Ospedale psichiatrico di Ancona si distingue per l’accurata organizzazione e per l’azione trainante che svolge nella psichiatria italiana e nell’ambiente medico cittadino.

Il terremoto del 30 ottobre 1930 sconvolge e distrugge il grande lavoro svolto per quindici anni. Crollano parecchi locali, in particolare quelli collocati lungo la linea mediana dell’Istituto. Scrive Modena: “seguono tre anni di impaziente angoscia per la profonda disorganizzazione in un luogo ove l’ordine è metodo di cura… tre anni durante i quali abbiamo spesso sostituito il metro allo stetoscopio per meglio utilizzare i locali, per dare a ogni cosa il suo posto”.

L’istituto Gramsci Marche conserva nei suoi archivi l’ Annuario del Manicomio Provinciale di Ancona del 1935, ove Modena ripercorre per intero gli anni della ricostruzione. Vengono qui riportate interamente le sue 33 pagine. Il testo è fondamentale per ripercorrere tutte le vicende legate alla ricostruzione e alla riorganizzazione dell’Ospedale.

Gustavo Modena viene allontanato dall’Ospedale Psichiatrico nel febbraio del 1939. Ha 62 anni e 36 di servizio. Ha dedicato la vita al manicomio e lo ha diretto per venticinque anni portandolo ad essere, per sua stessa affermazione, uno dei primi ospedali psichiatrici d’Italia.

Tutto  questo viene interrotto dall’applicazione delle leggi razziali.

Nei primi anni di guerra vengono ricoverati numerosi soldati. Le esperienze traumatiche, quando non simulate, sono indicibili e spesso si aggravano con il ricovero in Ospedale. I pazienti continuano a sentire voci che sono ordini militari e si svegliano nel mezzo della notte urlando per gli incubi. I medici si dichiarano impotenti di fronte a queste manifestazioni. Le cure adottate non funzionano. Le drammatiche esperienze della guerra e i suoi postumi fanno vacillare nei medici la convinzione che l’origine delle malattie psichiche sia puramente organica e che il manicomio abbia un effetto curativo sui ricoverati.

Verso la rivolta dei matti

Durante tutti gli anni ’60, in Italia come all’estero, si alzano voci di accusa contro i manicomi e contro la vecchia psichiatria, che mettono in discussione l’immagine comune della follia e affermano, come dice Basaglia, che “il malato mentale è malato soprattutto perché è escluso, abbandonato da tutti; perché è una persona senza diritti, nei confronti della quale tutto è possibile”. Il Sessantotto critica le istituzioni totali – carcere, manicomio, esercito, famiglia, scuola – che impongono le proprie regole all’individuo ed escludono coloro che non vi si conformano. Il malato mentale è considerato oggetto di una violenza originaria, familiare, istituzionale, sociale. Fino al ’68 le persone vengono ricoverate in quanto “pericolose a sé e agli altri” ed era prevalente l’aspetto della detenzione su quello della cura.

Numerosi scritti presentano la follia come questione sociale e i manicomi come istituzioni repressive che permettono a una società violenta di liberarsi di individui fragili e non allineati. I temi ricorrenti sono l’antiautoritarismo, il rifiuto della scienza neutrale, la denuncia delle istituzioni repressive. L’idea stessa di normalità è messa in discussione. Folle è chi più di altri avverte il disagio sociale ed è restio a integrarsi in una società oppressiva e malata. Gli psichiatri sono accusati di manipolare e condizionare coloro che, a ragione, esprimono il loro dissenso. L’internamento nell’istituzione psichiatrica è causa di regressione e di follia. Il manicomio esclude, non riabilita.

“I malati di mente, secondo la vecchia legge del 1904, sono considerati uomini irrecuperabili, e sono anche schedati, secondo un principio medievale, nel casellario giudiziario presso il Tribunale, come se fossero rei comuni […] Bisogna introdurre in questo mondo degli elementi  che stabiliscano un rapporto nuovo tra malato e medico e tra società civile ed individuo.”

Luigi Mariotti

All’inizio del ’68 sono emanate dal governo di centro-sinistra le prime leggi di riforma della sanità volute dal ministro Mariotti per estendere a tutti i cittadini il diritto all’assistenza sanitaria. Infatti, benché il fascismo fosse caduto da un quarto di secolo, era ancora in vigore il sistema mutualistico nato durante il regime che creava forti disparità. Molti erano privi di qualsiasi cura, tanto che il sistema sanitario italiano era considerato tra i più arretrati in Europa.

Finalmente la prima legge del 12 febbraio ’68 (Legge n. 132) trasforma in enti pubblici gli ospedali, fino a quel momento gestiti quasi tutti da enti di assistenza e beneficenza, e pone le basi per l’istituzione del Servizio Sanitario nazionale che avverrà nel ’78. Ma la legge 132/68 non comprende gli ospedali psichiatrici, che dipendono ancora dal ministero degli interni. Ciò provoca lo sciopero, ad Ancona come in molte altre città, dei medici del manicomio i quali sollecitano una legge di riforma per liberare i malati dal marchio della schedatura sul casellario giudiziario e assegnare agli psichiatri l’equiparazione ai medici ospedalieri, facendoli dipendere dal ministero  della Sanità e non più da quello degli Interni. Un mese dopo Mariotti riesce a far approvare la legge 431 del 18 marzo 1968. Qui la riportiamo integralmente.

La legge dà la possibilità di cambiare l’assistenza psichiatrica dove trova l’impegno congiunto di psichiatri e amministratori. ;a per molti dei 180mila ricoverati nei vari manicomi italiani non ci sono sostanziali cambiamenti per l’inerzia, la paura di assumere responsabilità, l’insensibilità  di direttori e amministratori. Ad Ancona, sull’esempio di altri manicomi del Centro e del nord, si mette in movimento un faticoso e combattuto processo di rinnovamento dell’assistenza psichiatrica. La legge 431/68 sancisce l’aumento dell’organico dei medici e degli infermieri, ma non prevede un cambiamento del loro stato giuridico e del trattamento economico e previdenziale. Scoppia quindi anche lo sciopero degli infermieri, che vorrebbero essere trattati come quelli degli ospedali. In realtà gli infermieri del manicomio sono “personale di custodia” privo di qualifica professionale: non è chiesto alcun titolo di studio per la loro assunzione e anche i corsi interni tenuti un tempo da Modena e da De Paoli sono caduti in disuso.

Inizia quindi un lungo braccio di ferro con l’Amministrazione provinciale, gli infermieri occupano la Provincia e sono provvisoriamente sostituiti da personale avventizio. In questa lotta sindacale si inserisce una presunta “rivolta dei matti” utilizzata dagli infermieri per dar forza  alle loro  rivendicazioni sindacali. Infatti, durante il loro sciopero, alcuni malati del reparto agitati, per il maggior disagio o per la minor sorveglianza, scardinano le inferiate e tentano la fuga, ma sono prontamente ripresi. L’Unità seguirà con molta attenzione le vicende di quei giorni, dando ampio spazio alla cronaca dei fatti. Di seguito vengono riportati gli articoli del 14, 15, 16 e 19 novembre 1968.

Nasce così la leggenda della “rivolta dei malati di Ancona”. Tutti i medici, infermieri, assistenti sociali dell’Ospedale Psichiatrico di allora escludono che ci sia stata una rivolta vera e propria: “non sarebbe stato possibile”. Basaglia, in un’intervista su Rinascita, avvicina questo moto, subito soffocato e presto dimenticato, a quello dei carcerati di Poggioreale e lo considera prodotto esemplare dell'”ideologia psichiatrica” che mette gli infermieri “sfruttati” contro i malati “esclusi”.

La rivolta dei malati di Ancona può essere avvicinata a quella dei carcerati di Poggioreale: in entrambi i casi si tratta del rifiuto dell’ideologia di cui sono prigionieri; gli uni custodialistica, gli altri punitiva. Una volta messa in moto la possibilità di rendere esplicite le contraddizioni, esse scoppiano a catena: ad Ancona si sono fronteggiate addirittura contraddizioni diverse, quella dei malati e quella degli infermieri. L’ideologia psichiatrica […] è riuscita a dividere sul terreno pratico componenti di una medesima classe: gli infermieri colonizzati dal potere sono delegati alla custodia dei malati che vivono e da cui sono vissuti come nemici. È il massimo livello di divisione del lavoro, che gli infermieri in quanto sfruttati vivono sull’inferiorità sociale dei malati in quanto esclusi […] Il malato mentale si è rivelato l’oggetto dell’esclusione, della violenza, dell’aggressività di una società che, non sapendo risolverlo in quanto problema, si è limitato a negarlo all’interno dei manicomi; ma insieme, è risultato evidente che solo il povero, il diseredato cade sotto questa violenza e questa aggressività.”

Così questo episodio marginale, che oggi nessuno ricorda, anzi è considerato inverosimile, è diventato un evento storico ricostruito a supporto della teoria dell’origine sociale del disagio psichico. La vertenza si trascina a lungo e le viene dedicato un convegno nazionale, promosso dalla Cgil e tenuto a Falconara nel dicembre ’70, cui partecipa l’assessore all’Ospedale neuropsichiatrico Bedini che assicura l’impegno della Provincia per l’applicazione della 431 e per la risoluzione dei problemi contrattuali. In questa occasione viene chiesto che i servizi psichiatrici siano collocati nell’ambito delle istituente Usl ed è riaffermata “la chiara scelta di classe dei lavoratori psichiatrici contro l’emarginazione del malato di mente”.

Quanto al manicomio di Ancona, per il momento si giunge ad un accordo di base al quale vengono tenuti corsi semestrali di formazione professionale per gli infermieri in modo da equipararli ai dipendenti degli altri ospedali. Così, previo un corso interno di formazione di circa 50 lezioni di mezz’ora ciascuna, tenuto dal dott. Ivanoe Mazzoni, delegato sindacale Cgil, e da altri medici dello psichiatrico, gli infermieri ottengono l’equiparazione con quelli degli altri ospedali e l’applicazione del contratto nazionale. Con la legge 431 oltre al miglioramento dell’assistenza, con l’assunzione di medici, infermieri e assistenti sociali e la costituzione di reparti aperti, c’è una nuova attenzione per l’assistenza psichiatrica sul territorio, cercando di trovare ai dimessi dal manicomio un’occupazione – in strutture pubbliche, in fabbrica, in laboratori di tipografia e legatoria – e seguendo le pratiche per reinserirli nelle liste elettorali.

Nonostante tutto, bisognerà aspettare ancora molti anni e molte altre battaglie affinché le persone con disabilità psichica acquistino il diritto all’assistenza, a pensioni di invalidità e alla riserva di posti di lavoro.

“Il malato mentale è malato soprattutto perché è un escluso, abbandonato da tutti; perché è una persona senza diritti, nei confronti della quale tutto è possibile. La conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell’intera comunità”

Franco Basaglia

Architettura e psichiatria

Non più carceri dove folli pericolosi sono reclusi, ma dimore dove i malati mentali siano preparati al ritorno nella società. Nel ’68 il manicomio di Ancona è inadeguato e fatiscente. La Provincia prevede di costruire due nuovi padiglioni. Viene interpellato il dott. Emilio Mancini che, proprio in questa occasione pubblica, in collaborazione con Umberto Nucci “Le dimore dei mentali”. Gli autori propongono un dialogo tra psichiatri ed architetti per la costruzione di ambienti che facilitino la vita comunitaria e l’integrazione sociale. Il saggio ripercorre  la storia degli istituti di ricovero per malati di mente e ne descrive le caratteristiche:

  • la posizione eccentrica
  • la monumentalità
  • le lunghe corsie dormitorio e refettori

“È difficile sfuggire, data la vastità dell’area e l’imponenza delle costruzioni, alla sensazione che all’interno la centralizzazione, l’ordine, l’autorità, siano a presidio”

  • le recinzioni, le inferiate, gli enormi cancelli

Sulla destra erano i reparti delle donne, a sinistra quelli degli uomini, al centro gli uffici, l’abitazione del direttore, delle suore. Da ciascuna delle due parti vi erano reparti divisi secondo il grado di pericolosità. Niente era in comune fino a quando nel ’73 Mancini, divenuto direttore, permise “il comune incontro in refettorio, nei luoghi di divago, nella vita esterna ai reparti”.

Dopo il Sessantotto prende consistenza il progetto di “slegare i matti” e chiudere l’Ospedale Psichiatrico di Ancona. Mancini pubblica su “La Voce di Ancona”  alcuni articoli che denunciano carenze e richiedono una radicale trasformazione. La spinta decisiva alla liberalizzazione  viene dal terremoto del ’72 che costringe allo sfollamento a Perugia molti medici e pazienti. Là i ricoverati sono liberi perché il dott. Sediari e l’amministrazione Rasimelli hanno utilizzato la legge Mariotti per trasformare molti ricoveri da coatti a volontari. Al ritorno ad Ancona sono in molti ad non accettare più le costrizioni del vecchio manicomio. Emilio Mancini fa togliere le reti di divisione, intensifica i contatti con il quartioere, riunisce i ricoverati nei reparti secondo le zone di provenienza, prima tappa verso l’assistenza territoriale delle unità sanitarie locali. Tra il ’78 e l’ ’81 l’attiva collaborazione del direttore Mancini e dell’assessore Emilio Ferretti conduce alla trasformazione dell’assistenza psichiatrica provinciale. Medici e malati sono trasferiti presso Ospedali locali, case di riposo e cliniche. Ma alla deistituzionalizzazione non segue dappertutto l’istituzionalizzazione di efficienti centri d’igiene mentale, di accoglienti case famiglia e di altre strutture alternative, e le famiglie non ricevono sempre il sostegno psicologico e l’assistenza sociale necessaria per affrontare la malattia mentale. I cosiddetti “matti” non sono più legati, ma sono dimenticati.

Oltre l’archivio – il Gramsci si Mostra

CREDITI

Coordinamento scientifico: Patrizia Gabbanelli

Materiale e testi:

  • “La città degli altri – Il manicomio provinciale di Ancona tra reclusione e libertà (1900 – 1999)” di Gabriella Boyer Pelizza, 2015 Affinità Elettive;
  • “Ancona (e dintorni) nel biennio 1968-69 – Dall’archivio storico dell’Istituto Gramsci Marche (e non solo)” di AA. VV., Catalogo della mostra alla Mole Vanvitelliana 25 giugno – 25 luglio 2009, 2009 Affinità Elettive ;

Revisione e scelta testi: Francesco Pascucci

Grafica: Francesco Pasucci

Editing e restauro fotografico: Francesco Pascucci

Crediti fotografici:

  • AA. VV. (sconosciuti) per le foto fino agli anni ’30
  • Roberto Bonfigli per le foto degli anni ’60

Tutte le foto sono state scattate, in epoche differenti, all’Ospedale Psichiatrico di Ancona.

Nota: per verificare i crediti fotografici basta appoggiare il cursore sopra la foto in questione

Finanziamento: progetto sostenuto dalla Regione Marche – Assessorato alla cultura

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